Quando il passato bussa forte alla porta: perché oggi i grandi ritorni non sono solo nostalgia
Viviamo in un’epoca in cui il passato videoludico è più vivo che mai. Gli sviluppatori riportano in auge capolavori del passato, i giocatori chiedono a gran voce ritorni storici, e le piattaforme moderne sembrano fatte apposta per accogliere remake, reboot o sequel spirituali. Eppure, ci sono ancora giochi straordinari rimasti ingiustamente fermi nel tempo, titoli che non hanno mai avuto una vera seconda occasione, ma che oggi – con le tecnologie e il gusto attuale – potrebbero tornare più in forma che mai.
In questa classifica non troverete remaster tiepide o operazioni nostalgia fatte con il minimo sforzo. Qui si parla di videogiochi che meritano un rifacimento profondo, coraggioso, o magari un seguito ambizioso che rispetti lo spirito originale ma guardi avanti. Alcuni sono cult, altri sono pietre miliari dimenticate, tutti però hanno una cosa in comune: hanno ancora qualcosa da dire.
Dal survival horror con i dinosauri ai JRPG che hanno fatto scuola, passando per esperimenti narrativi e perle action sepolte nel tempo, ecco i dieci titoli che – secondo noi – devono assolutamente tornare. E in un’epoca di grandi revival, chissà… magari qualcuno di questi è già in cantiere. Questi sono i 10 giochi che meritano un remake, secondo lo ZioSen!
The Legend of Dragoon – Il JRPG che sfidò i titani, e che oggi potrebbe batterli
Anno di uscita: 1999 (Giappone), 2001 (Europa)
Piattaforme: PlayStation
Curiosità: Sviluppato internamente da Japan Studio con un budget record per l’epoca; le “Dotazioni” erano una primitiva forma di quick-time event nei combattimenti
In un’epoca dominata da Final Fantasy VII, Sony decise di rispondere con un titolo ambizioso, visivamente impressionante per il tempo e con un sistema di gioco che cercava di rinnovare il genere. The Legend of Dragoon non fu solo una risposta tecnica: fu una dichiarazione d’intenti, un JRPG che provava a costruirsi un’identità unica in mezzo ai colossi.
La storia ruota attorno a Dart e alla sua lotta contro il destino in un mondo dilaniato da guerre e segreti antichi. Ma ciò che rese davvero speciale questo titolo fu il sistema delle Dotazioni: durante i combattimenti a turni, il giocatore doveva premere i tasti con il giusto tempismo per concatenare combo sempre più complesse e potenti. Questo rendeva i turni meno passivi e più coinvolgenti, quasi anticipando i moderni ibridi tra action e strategico.
E poi c’erano loro: i Dragoon, trasformazioni spettacolari che sbloccavano magie devastanti e un design visivo inedito per l’epoca. Le cutscene in CGI, i fondali pre-renderizzati e le musiche solenni restituivano un’atmosfera epica e drammatica, nonostante il doppiaggio (soprattutto italiano) fosse piuttosto discutibile.
Oggi The Legend of Dragoon è un titolo di culto. Nonostante le sue ingenuità tecniche e narrative, rimane uno dei JRPG più amati su PlayStation, spesso citato dai fan come uno dei candidati ideali per un remake in grande stile. Un rifacimento simile a quello di Final Fantasy VII Rebirth – con combattimenti modernizzati ma fedeli alla formula originale, una narrazione più matura e grafica all’avanguardia – potrebbe riportarlo ai fasti che merita.
Non sarebbe solo un’operazione nostalgia, ma una riscoperta piena di potenziale. E in un’epoca in cui i vecchi eroi tornano a nuova vita, Dart e i Dragoon potrebbero finalmente volare di nuovo.
Skies of Arcadia – L’epopea nei cieli che ci ha insegnato a sognare
Anno di uscita: 2000 (Dreamcast), 2003 (GameCube con contenuti extra)
Piattaforme: SEGA Dreamcast, Nintendo GameCube
Curiosità: Il porting su GameCube migliorò i tempi di caricamento e introdusse nuovi contenuti, ma non fu mai localizzato in italiano; la mappa di gioco è interamente aerea, con isole fluttuanti e rotte da scoprire in piena libertà
C’è stato un tempo in cui i videogiochi ti portavano letteralmente in alto. Skies of Arcadia è uno di quei titoli che hanno lasciato il segno nel cuore di chi l’ha vissuto, non solo per il gameplay o la grafica, ma per quel senso di avventura pura, totale, che oggi è sempre più raro.
Nei panni di Vyse, un giovane pirata dell’aria, il giocatore solca i cieli a bordo della nave volante Delphinus, insieme ai compagni Aika e Fina. L’ambientazione è uno degli elementi più ispirati dell’intero gioco: un mondo sospeso, composto da isole fluttuanti, rotte celesti, civiltà perdute e imperi tirannici. Una vera e propria mappa da esplorare con la meraviglia negli occhi, dove ogni nuova rotta svelava scenari mai visti.
Il combat system è a turni, classico ma ben ritmato, e si svolge su due livelli: i combattimenti a terra, gestiti dal party, e quelli tra le navi volanti, dove ogni mossa – attacco, difesa, cannonate speciali – veniva pianificata a turni in base alla posizione e all’energia. Potevi potenziare il tuo vascello, reclutare membri dell’equipaggio, personalizzare l’artiglieria… il tutto senza mai perdere l’equilibrio tra narrazione e gameplay.
Dal punto di vista narrativo, il gioco mescola leggerezza e profondità. Vyse è un protagonista ottimista, quasi naif, ma carismatico. La trama parla di esplorazione, resistenza, fiducia, e si costruisce attraverso incontri memorabili, missioni principali e secondarie, e un mondo vivo e coerente. Anche se non doppiato in italiano, i dialoghi restano incisivi e scritti con intelligenza.
Un remake in chiave moderna potrebbe trasformare Skies of Arcadia in un cult per una nuova generazione. Ma anche una semplice remastered in HD, con traduzione italiana e supporto widescreen, farebbe la gioia dei fan storici. SEGA, da anni dormiente su questo gioiello, ha tra le mani un diamante grezzo che aspetta solo di tornare a brillare.
Alundra – L’incubo a pixel che non ti lascia dormire
Anno di uscita: 1997
Piattaforme: PlayStation
Curiosità: sviluppato da Matrix Software, ha ricevuto una localizzazione italiana con dialoghi sorprendenti per maturità e tematiche trattate
Nel cuore della generazione PlayStation, quando i JRPG esplodevano in popolarità e la grafica 3D sembrava l’unico futuro possibile, Alundra fece una scelta controcorrente. Scelse la potenza della pixel art, la profondità del design e la maturità della narrazione. Il risultato? Un action-RPG cupo, impegnativo e ancora oggi unico.
In Alundra vestiamo i panni di un giovane “dreamwalker”, capace di entrare nei sogni altrui. Un potere affascinante, ma anche maledetto, che ci porta a vivere incubi, ansie e paure interiori delle persone di un piccolo villaggio afflitto da una maledizione. Non è il classico salvatore. Alundra è uno strumento di introspezione, un ponte tra coscienza e subconscio, e il gioco non ha paura di scavare nella morte, nella fede, nella follia.
Il gameplay è un mix perfetto tra azione e riflessione: dungeon labirintici, enigmi ambientali che mettono alla prova non solo l’intuito, ma anche la pazienza, e combattimenti rapidi, spesso letali. Non si tratta mai di premere tasti a caso. Ogni stanza è un puzzle, ogni nemico una minaccia concreta. Morire non è raro, anzi: Alundra è un gioco severo, che non perdona la superficialità. E proprio per questo regala una soddisfazione rara.
Dal punto di vista estetico, è un piccolo capolavoro. Gli sprite sono animati con cura minuziosa, gli effetti atmosferici creano tensione anche senza poligoni, e la colonna sonora alterna toni malinconici a brani inquietanti, cuciti addosso a ogni ambientazione.
Ma il vero punto di forza resta la scrittura. Il gioco è denso di dialoghi maturi, personaggi secondari con personalità complesse, e tematiche forti affrontate con una delicatezza che raramente si vedeva — e si vede — in produzioni simili.
Un ritorno di Alundra, magari in stile 2.5D con grafica aggiornata ma fedele allo spirito originale, sarebbe un dono per chi cerca emozioni autentiche nei videogiochi.
Parasite Eve – L’orrore bio-organico che merita nuova vita
Anno di uscita: 1998
Piattaforme: PlayStation
Curiosità: Ispirato a un romanzo giapponese; primo gioco Square con rating “Mature” in America
Nel pieno della sua epoca d’oro, Square decise di rompere gli schemi con un titolo che fosse allo stesso tempo un survival horror, un JRPG e un esperimento narrativo: Parasite Eve. E ci riuscì. Ambientato in una New York inquietante, devastata da una mutazione cellulare incontrollabile, il gioco ci mette nei panni di Aya Brea, agente di polizia coinvolta in un’epidemia che trasforma le persone in creature mostruose.
Quello che lo rende speciale è l’ibridazione dei generi: il sistema di combattimento mescola movimento in tempo reale con un Active Time Battle, permettendo di schivare, posizionarsi e lanciare abilità speciali mentre si aspetta il proprio turno. Una soluzione innovativa e tattica che ancora oggi risulta affascinante.
L’atmosfera è tesa, viscerale, adulta. L’orrore biologico è trattato con serietà scientifica: si parla di mitocondri, DNA, esperimenti genetici, in un racconto che ha tanto di thriller fantascientifico quanto di classico horror. Le musiche di Yoko Shimomura (compositrice anche di Kingdom Hearts) amplificano l’angoscia e il mistero con temi carichi di pathos.
Narrativamente, il gioco è molto più profondo di quanto sembri: Aya è una protagonista forte, ma umana, piena di dubbi, e il suo legame con la misteriosa Melissa/Eve si sviluppa tra visioni, drammi interiori e sacrifici reali. Alcune scene, come quelle ambientate nel teatro dell’opera o nel museo di storia naturale, sono diventate iconiche.
Un remake moderno, sulla scia di quanto Capcom ha fatto con Resident Evil 2, potrebbe rilanciare un franchise dimenticato ma con un enorme potenziale. Le basi ci sono tutte: trama potente, meccaniche originali, ambientazione memorabile. E noi, dopo anni di silenzio, siamo ancora pronti a combattere con Aya.
Eternal Darkness: Sanity’s Requiem – Il terrore che rompe la quarta parete
Anno di uscita: 2002
Piattaforme: Nintendo GameCube
Curiosità: Primo gioco per console Nintendo a ottenere un rating “Mature” e a introdurre un sistema di sanità mentale in tempo reale
C’è un tipo di horror che non si limita a farti saltare dalla sedia. Ti entra nella testa, ti inganna, ti confonde, gioca con le tue paure e ti fa mettere in dubbio anche ciò che vedi sullo schermo. Eternal Darkness: Sanity’s Requiem non era solo un videogioco: era un esperimento psicologico mascherato da avventura horror.
Uscito su Nintendo GameCube — console non proprio famosa per i suoi titoli maturi — questo capolavoro sviluppato da Silicon Knights è diventato una leggenda cult. Non tanto per i suoi numeri di vendita, quanto per il suo coraggio e originalità assoluta. La meccanica della sanità mentale, oggi tanto imitata, qui raggiungeva vette impensabili: il gioco simulava bug, cancellazioni dei salvataggi, crash improvvisi, e perfino abbassamenti di volume del televisore, tutto per farti credere che qualcosa stesse andando storto davvero.
La struttura del gioco è antologica: impersoniamo ben dodici personaggi in epoche diverse — dall’Impero Romano all’Iraq moderno — tutti legati da un manoscritto maledetto, il Tomo dell’Eterna Oscurità, e tutti destinati a combattere una forza cosmica antica che ricorda le creature di Lovecraft. L’unica che può fermare il ritorno dell’orrore è Alexandra Roivas, protagonista nel presente, che indaga sull’oscura morte del nonno e si ritrova a ricostruire gli eventi passati tassello dopo tassello.
Il gameplay è un mix tra survival horror classico, gestione dell’inventario, incantesimi magici da comporre combinando rune arcane, e una componente esplorativa che spinge il giocatore a leggere, ascoltare, ragionare. Non è un gioco d’azione: è un puzzle narrativo, un viaggio nella follia, in cui ogni dettaglio serve a qualcosa.
A rendere il tutto ancora più affascinante è il sistema dei Tre Dei Antichi: potenze ultraterrene che offrono approcci diversi — potere fisico, magia, manipolazione mentale — e che influenzano il gioco a seconda della scelta iniziale. Vuoi rigiocarlo con un altro Dio? Il finale cambia. E solo completandolo tre volte, si sblocca il vero epilogo segreto.
Eternal Darkness è uno di quei giochi che non dimentichi. Anche vent’anni dopo. E un suo ritorno — con grafica moderna, nuove illusioni psicologiche e un comparto audio in grado di giocare con l’ambiente — sarebbe un evento epocale per il genere horror. In un’epoca dove il jump scare regna sovrano, servirebbe di nuovo un gioco che ti spaventi con l’intelligenza.
Lost Odyssey – La poesia in forma di JRPG che il tempo ha dimenticato
Anno di uscita: 2007
Piattaforme: Xbox 360
Curiosità: Creato da Hironobu Sakaguchi, il padre di Final Fantasy, e con colonne sonore firmate da Nobuo Uematsu. Contiene oltre 30 racconti testuali scritti come novelle letterarie.
Ci sono giochi che non ti restano nel cuore solo per il gameplay o la grafica. Ti ci aggrappi per le emozioni, per quello che ti fanno provare quando li giochi. Lost Odyssey è uno di quei titoli rari. Un JRPG classico, senza troppi fronzoli, ma capace di colpirti allo stomaco con una scrittura che pochi giochi riescono a sfiorare.
Creato da Mistwalker e guidato da Hironobu Sakaguchi – il nome dietro Final Fantasy – questo gioco esclusivo per Xbox 360 arrivò nel momento giusto per colmare il vuoto lasciato dai JRPG più tradizionali. Ma non si limitava a ripetere formule: le arricchiva con una maturità rara.
Il protagonista è Kaim Argonar, un guerriero immortale che ha vissuto oltre mille anni. Il gioco ti mette nei suoi panni, ma ti costringe anche a vivere il peso di quella vita infinita. Non è l’eroe senza macchia. È tormentato, stanco, segnato da un passato pieno di dolore, perdite, battaglie e memorie spezzate. E quelle memorie non sono solo raccontate: sono scritte.
Durante l’avventura, sblocchi i cosiddetti “Mille Anni di Sogni”, brevi storie testuali che narrano frammenti del passato di Kaim. Sì, si leggono. Ma sono tra le pagine più emozionanti mai scritte per un videogioco. Temi come la guerra, la paternità, il rimpianto, la bellezza e la tragedia dell’essere umano… il tutto accompagnato da musiche minimaliste e malinconiche. Ti viene da piangere solo a ricordarle.
Il sistema di combattimento, invece, è un omaggio ai classici: turni, magie, formazione anteriore/posteriore, e un meccanismo di anelli da tempo al momento giusto che aggiunge ritmo all’azione. Gli immortali, come Kaim, non imparano abilità salendo di livello: devono osservarle dagli umani e impararle nel tempo, proprio come nella vita reale si apprende osservando gli altri.
Tecnicamente, all’epoca era sontuoso. I filmati in CG erano al livello dei Final Fantasy, i modelli dettagliati, le ambientazioni ricche di atmosfera. Oggi ovviamente avrebbe bisogno di una rimodernata grafica, magari con qualche Quality of Life update, come la velocizzazione dei combattimenti o un’interfaccia più snella. Ma il cuore resta intatto.
Un remake o una riedizione moderna – anche solo su PC o piattaforme attuali – potrebbe far scoprire a una nuova generazione una delle storie più umane mai raccontate in un videogioco. Perché Lost Odyssey non è solo un JRPG: è una riflessione su cosa significa essere vivi.
Vagrant Story – Il dungeon RPG più ambizioso della prima PlayStation
Anno di uscita: 2000
Piattaforme: PlayStation
Curiosità: Sviluppato dal team di Final Fantasy Tactics, è uno dei pochissimi giochi a ricevere un perfetto 40/40 da Famitsu. Non ha mai avuto sequel o remake.
Se parliamo di giochi che erano troppo avanti per il loro tempo, allora Vagrant Story è senza dubbio uno dei primi nomi che mi viene in mente. Questo titolo firmato Yasumi Matsuno, lo stesso genio dietro Final Fantasy Tactics e Tactics Ogre, è un’opera che unisce azione, strategia e narrativa matura come pochissimi altri.
Ambientato quasi interamente nella città maledetta di Lea Monde, il gioco ti mette nei panni di Ashley Riot, un “riskbreaker” – una sorta di agente d’élite – coinvolto in una trama fatta di politica, religione, intrighi e magia oscura. Ma non aspettarti il classico RPG con città, locande e negozietti: Vagrant Story è un dungeon RPG puro, privo di menu tradizionali, dove ogni passo conta.
Il sistema di combattimento è uno dei più unici mai visti: in tempo reale, ma con la possibilità di mirare liberamente alle parti del corpo del nemico, scegliendo dove colpire per massimizzare i danni o spezzare le difese. E poi c’è la catena di attacchi: concatenare colpi con il giusto tempismo per infliggere combo devastanti, mentre si gestiscono stati alterati e resistenze.
Ma dove Vagrant Story brilla davvero è nella profondità del crafting. Puoi fondere armi, armature, affinare attributi, creare build su misura… tutto tramite un sistema che oggi, ancora, sorprende per complessità e coerenza. È quasi un gioco nel gioco. Eppure non ti tiene mai per mano. Ti spinge a sperimentare, sbagliare, riprovare. Ed è proprio questo il suo fascino.
Graficamente, per l’epoca era fuori scala (e tutto per andare a “combattere” con la grafica di Metal Gear Solid). Una regia degna del cinema, con inquadrature dinamiche, espressioni facciali e ambientazioni gotiche che ancora oggi sono affascinanti. Tutto rigorosamente senza doppiaggio, ma con dialoghi scritti con uno stile letterario e una maturità narrativa fuori dal comune.
Vagrant Story è stato un azzardo creativo enorme, che forse proprio per questo è rimasto isolato. Ma oggi, con la passione rinnovata per i giochi profondi e difficili da incasellare, sarebbe il momento perfetto per dargli una seconda vita. Immaginatelo con una grafica in Unreal Engine 5, mantenendo il combat system strategico e il design opprimente di Lea Monde. Sarebbe qualcosa di unico, di nuovo. Ma soprattutto, di necessario.
Jade Empire – L’RPG orientale che BioWare dovrebbe assolutamente rispolverare
Anno di uscita: 2005
Piattaforme: Xbox, PC
Curiosità: Primo gioco originale BioWare post-KOTOR, basato su mitologia e filosofia cinese. Ancora oggi viene considerato uno dei loro titoli più sottovalutati.
Prima che BioWare diventasse sinonimo di Mass Effect e Dragon Age, c’è stato un momento in cui il team canadese si è preso un rischio, portandoci in un mondo ispirato alla cultura orientale, tra arti marziali, spiriti guida e filosofia del Tao. Quel momento si chiama Jade Empire, ed è uno dei giochi più unici e dimenticati della sua epoca.
Tu sei un maestro di arti marziali, studente di una scuola segreta, destinato a scoprire la verità dietro una minaccia che sta corrompendo l’equilibrio del mondo. Sì, lo scheletro narrativo può sembrare semplice, ma è il modo in cui la storia viene raccontata che fa la differenza. BioWare ci ha messo l’anima, con personaggi scritti benissimo (chi si scorda Silk Fox, Sky o Black Whirlwind?) e un mondo che unisce elementi storici, spirituali e fantastici.
Il combat system? Un misto tra azione e strategia, con uno stile ibrido che permette di cambiare tecnica in tempo reale durante i combattimenti. Puoi usare arti marziali, magie elementali, trasformarti in demoni e utilizzare stili “supporto” per rallentare, confondere o curarti. La sensazione di fluidità è immediata, e ogni stile ha i suoi punti di forza e debolezza. Non si tratta di button mashing: bisogna leggere gli avversari, studiare le aperture, decidere quando colpire e con cosa.
Dal punto di vista estetico, Jade Empire è una lettera d’amore al Wuxia, quel genere cinematografico cinese fatto di combattimenti eleganti, filosofia e senso dell’onore. I paesaggi sembrano usciti da un sogno, le musiche sono evocative e la direzione artistica ancora oggi non ha nulla da invidiare ai titoli attuali.
E poi c’è il sistema di scelte morali, marchio di fabbrica BioWare. Qui si articola attorno ai sentieri dell’Armonia e del Conflitto, ma non in senso banale “bene contro male”. Le scelte che fai non sono solo etiche, ma spesso filosofiche. Sei disposto a salvare una vita se ciò viola un principio? È giusto usare il potere se serve a fare giustizia? Jade Empire ti costringe a riflettere.
Il fatto che questo gioco non abbia mai avuto un sequel è uno dei grandi misteri del gaming. Ma proprio per questo, un remake o anche solo un reboot spirituale avrebbe un impatto devastante oggi. In un mercato che ha fame di esperienze diverse e mondi nuovi da esplorare, Jade Empire ha tutto il potenziale per rinascere alla grande. Serve solo il coraggio di crederci.
Dino Crisis – Il survival horror preistorico che deve assolutamente tornare
Anno di uscita: 1999
Piattaforme: PlayStation, Dreamcast, PC
Curiosità: Creato da Shinji Mikami, il padre di Resident Evil; definito “panic horror” per la sua velocità e imprevedibilità rispetto al survival classico.
Resident Evil… ma con i dinosauri. Già solo questa premessa bastava a vendere milioni di copie. Dino Crisis non era solo un clone preistorico: era una rivoluzione del survival horror, che portava il terrore dalle magioni infestate ai laboratori segreti pieni di rettili letali e imprevedibili.
Nei panni di Regina, un’agente dell’unità speciale SORT, ci ritroviamo su un’isola sperduta per recuperare uno scienziato ribelle. Ma nulla va come previsto. Invece di trovare ricercatori armati e pronti allo scontro, ci troviamo davanti a T-Rex che sfondano i muri, Velociraptor che si infilano nei condotti, dinosauri assetati di sangue. La tensione è alle stelle fin dai primi minuti.
Il gameplay riprendeva la struttura classica di Resident Evil, con gestione dell’inventario limitata, enigmi ambientali e munizioni da centellinare, ma con una marcia in più: i dinosauri erano veloci, intelligenti, imprevedibili. Non c’erano “safe zone” sicure. In Dino Crisis, anche una porta appena attraversata poteva non salvarti.
Il ritmo del gioco era serrato, l’atmosfera carica di suspense e il level design costruito per farti sentire braccato. E a differenza degli zombie, qui non bastava puntare alla testa: dovevi capire il comportamento dei nemici, sfruttare trappole ambientali e imparare quando era meglio scappare.
A livello narrativo, il gioco proponeva una trama di scienza deviata, esperimenti temporali e manipolazione genetica, con una protagonista forte, carismatica, capace di reggere l’intera scena da sola. Regina non è solo un’eroina d’azione, ma uno dei personaggi femminili più interessanti dell’epoca PS1, mai pienamente valorizzata.
Eppure, dopo due seguiti — uno più action, l’altro ambientato nello spazio — la saga è scomparsa. Ma oggi, con il successo dei remake di Resident Evil 2 e 3, e l’interesse sempre più vivo per i survival horror di nuova generazione, il ritorno di Dino Crisis sarebbe un trionfo annunciato.
Immagina: grafica fotorealistica, level design semi-open world, intelligenza artificiale evoluta per i dinosauri, atmosfera alla Alien Isolation ma con la potenza visiva moderna. Capcom ha tutto per farcela. E noi, onestamente, non aspettiamo altro che sentire di nuovo quel ruggito… che ti ghiaccia il sangue.
Metal Gear Solid – Il capolavoro assoluto che ha rivoluzionato il videogioco moderno
Anno di uscita: 1998
Piattaforme: PlayStation, successivamente su PC, GameCube (con remake Twin Snakes), PS3, PS Vita, PS Classic
Curiosità: È stato uno dei primi giochi a introdurre cinematiche in stile film, doppiaggio integrale e regia “hollywoodiana”; Psycho Mantis rompeva la quarta parete leggendo la memory card del giocatore.
Se c’è un videogioco che non ha solo fatto la storia, ma ha cambiato per sempre le regole del gioco, quello è Metal Gear Solid. Sviluppato da Hideo Kojima e pubblicato su PlayStation nel 1998, è più di uno stealth game. È una lezione di game design, storytelling e regia che ancora oggi lascia il segno.
Nel ruolo di Solid Snake, un leggendario agente infiltrato, ci ritroviamo sull’isola di Shadow Moses per fermare un attacco terroristico e una minaccia nucleare. Ma da qui inizia un viaggio molto più grande: un’odissea fatta di complotti governativi, bioingegneria, filosofia esistenziale e identità personale.
Il gameplay, all’epoca, era rivoluzionario: infiltrazione pura, visuale isometrica, gadget da usare con intelligenza, scontri con boss unici. E poi c’era Psycho Mantis, che leggeva la tua memory card e ti costringeva a cambiare porta del controller per sconfiggerlo. Cose mai viste prima. La quarta parete? Frantumata.
Ma il vero cuore di Metal Gear Solid era la narrazione profonda e cinematografica. Non si trattava solo di “sparare” o “nascondersi”. Il gioco parlava di genetica, libero arbitrio, guerra, dolore e famiglia. Ogni personaggio aveva un passato complesso: da Sniper Wolf a Revolver Ocelot, da Meryl a Gray Fox, tutti lasciavano un segno.
E vogliamo parlare del doppiaggio italiano? Per la prima volta, un gioco su console offriva una localizzazione totale, con voci memorabili che hanno reso le battute leggendarie. “Io sono solo un’arma creata per uccidere” è entrata nell’immaginario collettivo.
Il remake di Metal Gear Solid 3: Snake Eater è già in lavorazione. Ma il vero sogno dei fan è un remake del primo Metal Gear Solid. Immaginate lo stesso Shadow Moses, ma con grafica da next-gen, intelligenza artificiale moderna, meccaniche stealth evolute e lo stesso spirito cinematografico del capolavoro originale.
E soprattutto, con Kojima al timone. Perché solo lui può ridare a Snake e soci la profondità, la follia e l’umanità che li hanno resi immortali.
Metal Gear Solid non è solo un gioco da rifare: è un’eredità da onorare. E siamo pronti ad accoglierla, pad alla mano. Questo titolo si merita di diritto la prima posizione tra i giochi che meritano un remake, il più presto possibile!
Alcuni giochi non invecchiano: aspettano solo il momento giusto per tornare
Il videogioco è una forma d’arte in costante evoluzione, ma ci sono titoli che non hanno bisogno di cambiare per restare attuali. Titoli che, nonostante il tempo passato, continuano a vivere nella memoria collettiva dei giocatori e a influenzare le opere successive. E non perché siano perfetti, ma perché hanno lasciato qualcosa. Un’idea forte, un’emozione, una visione.
Questi dieci giochi non sono stati scelti per nostalgia, ma per potenziale. Perché hanno ancora tanto da dire. Un remake, un reboot o anche solo una riedizione intelligente potrebbero restituire loro nuova linfa vitale, farli scoprire a una nuova generazione e ricordarci perché li abbiamo amati così tanto. E secondo te quali sono i giochi che meritano un remake?
In un mercato dove spesso si guarda solo al futuro, guardare al passato con rispetto e coraggio creativo può essere la chiave per creare nuove esperienze straordinarie. E magari, chissà, tra qualche anno saremo qui a scrivere una nuova lista… con questi remake finalmente usciti.
Nel frattempo, non possiamo fare altro che sperare. E continuare a parlare di questi capolavori che, anche senza poligoni in 4K o RTX, non hanno mai smesso di brillare.
E a proposito di giochi che brillano, hai visto quanto brilla Stellar Blade con la sua uscita PC? E se ti piacciono i contenuti di Top-Games.it e lo ZioSen, continua a seguirci!